
Il diritto di essere uomini: Franco Basaglia e la fine dei manicomi
Al diseredato è stato negato il diritto di essere uomo, accomunando in uno stesso destino colpa, malattia e ogni deviazione dalla norma.
Così scrivevano Franca e Franco Basaglia nell’introduzione ad Asylums. Le istituzioni totali di Erving Goffman, quando nel 1968, l’anno della contestazione giovanile, il libro fu pubblicato in Italia. Nello stesso momento usciva, proprio di Basaglia, L’istituzione negata, in cui l’ospedale psichiatrico era definito “isola congelata senza storia”. D’altronde, entrare in manicomio tramite ricovero coatto e definitivo, significava ancora a metà del ‘900 la privazione dei diritti civili.
Basaglia era ancora, allora, direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove perseguiva da anni una difficile “riforma”, allo stesso tempo provocatoria denuncia, della vita manicomiale. Aveva iniziato nel 1961: l’inserimento del modello della comunità terapeutica era la prima sperimentazione sulla strada del dissolvimento del “corpo dell’istituzione” manicomiale (così si esprimerà in Morire di classe) basata sulla contenzione, cioè immobilizzazione, sull’elettroshock e sulla degradazione—negazione infine—dell’identità degli “ammalati di testa”: che in manicomio indossavano le casacche da reclusi vivendo senza comunicare, fra cattivi odori permanenti.
Nel 1961, oltre al libro di Goffman, ne uscivano altri due allacciati all’esperienza di Basaglia presente e futura. Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, e I dannati della terra, il “manifesto” della decolonizzazione di Frantz Fanon (anch’egli psichiatra).
Franco Basaglia e il senso della comunità
Lo status del folle, di cui parla Foucault nel suo testo, è quello dell’escluso; per Basaglia, in epoca contemporanea, quello del diseredato. Lo psichiatra veneziano, nato nel 1924, laureatosi a Padova nel 1943, imprigionato per 6 mesi durante il fascismo—esperienza che lo porterà a concludere che il manicomio è un carcere—lo spiegava in una nota intervista rilasciata a Sergio Zavoli nel 1968:
Io faccio la psichiatria, o almeno credo di farla, tenendo presente che conosco almeno—e qui ritorno sul terreno sociologico—due tipi di psichiatria. La psichiatria per i poveri e quella per i ricchi. C’è un proverbio calabrese, molto interessante a questo proposito: “chi non ha non è“. Questa contraddizione, che esprime nella sua totalità le contraddizioni della nostra società, si manifesta nella maniera più chiara, proprio nei nostri ospedali psichiatrici.
Effettivamente chi non ha non è, perché quando una persona disturba, malato o no che sia, va a finire o in manicomio o in carcere. Questa è effettivamente una situazione contraddittoria. Io non dico che il malato di mente non sia pericoloso. Però dico che la pericolosità non dipende soltanto dalla sua malattia, ma da molteplici fattori. Perché anche la malattia mentale, non posso considerare che sia soltanto una situazione biologica, è un insieme di fattori che determinano nel soggetto, nella persona, quelle motivazioni che lo spingono a un determinato comportamento.
L’istituzione negata
Un rapporto più stretto fra utenti e personale. Il contributo degli utenti stessi alle decisioni, con le assemblee generali, il voto delle mozioni. Un senso della comunità che crescesse in strutture più simili alla casa che all’ospedale. Insomma, il rifiuto dell’istituzionalizzazione fu il senso del lavoro di Basaglia a Gorizia.
Io non saprei proporre nulla di psichiatrico in un manicomio tradizionale. In un ospedale dove i malati sono legati. Credo che nessuna terapia di nessun genere, biologica o psicologica, possa dare un giovamento a queste persone che sono costrette in una situazione di sudditanza e cattività da chi li deve curare.
Nel 1972 Basaglia assunse la direzione del manicomio di Trieste.
Verso la legge 180: la chiusura del manicomio di Trieste
Quella che a Gorizia era ancora, diciamo, utopia, a Trieste, anche grazie al sostegno del presidente della provincia Michele Zanetti, diventò possibile. Nel 1977 fu annunciata la chiusura del manicomio.
In alcuni anni, erano stati fatti molti passi avanti. Aboliti i reparti. Abolite le divisioni di genere nella struttura. “Diffusione” dell’ospedale in settori diversi e distanti, con apertura al tessuto cittadino. E, soprattutto, la nascita delle cooperative sociali. In nome dell’ergoterapia i pazienti erano costretti a lavorare senza diritti: nel 1972 nasce la “Cooperativa lavoratori uniti”, che permetterà la normalizzazione del lavoro degli utenti. Qui Michele Zanetti ricorda le circostanze della sua costituzione.
Nel 1978, infine, verrà approvata, quasi all’unanimità, la legge quadro 180. Con cui si dichiara l’abolizione degli ospedali psichiatrici, e la ricollocazione dei pazienti in altre strutture territoriali. Ma, piuttosto che una fine, fu l’inizio di un processo di de-ospedalizzazione tutt’altro che concluso. Le cui possibilità di concreto avanzamento sono affidate ancora oggi all’interesse, alla capacità, alla lungimiranza e alla moralità delle amministrazioni locali.
Sull’esperienza di Franco Basaglia, rendendo merito ai numerosi collaboratori, ha scritto un articolo la storica Vanessa Roghi per Internazionale. La stessa è tornata, recentemente, sulla questione dell’eredità della legge 180. Sempre su Internazionale, John Foot, autore di un libro importante, La repubblica dei matti, racconta la bellissima lettera inviatagli da una volontaria inglese che nel 1967, ventenne, partecipando a un servizio di volontariato, lavorò all’ospedale di Gorizia, all’epoca già “trasformato” dall’attività di Basaglia e dei giovani medici che lavoravano con lui: l’esperienza trasformò anche la sua vita.
Foto di copertina di Gianni Berengo Gardin, dalla mostra I grandi maestri. 100 anni di fotografia Leica.